La scuola Lielupe

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La scuola Lielupe

| 20 Luglio 2019 | Pubblicato in Mini Siti A workshop in a Sustainable society

La scuola dove ho insegnato, ballato, mangiato, suonato, cucinato, litigato, partorito idee ed organizzato eventi, si chiama Lielupe, che significa “grande fiume”.

Lielupe è, infatti, un fiume lettone che attraversa anche la città di Jūrmala ed è il nome di una stazione ferroviaria e di uno dei suoi quattordici rioni, che un giorno ho raggiunto camminando da sola con mio padre, poi da sola con il mio violino. La scuola dista pochi minuti a piedi dalla casa numero 8 dove ho abitato ed è un edificio piuttosto grande, considerato l’esiguo numero degli studenti.

Anche la Lettonia è piuttosto grande, considerato che ci vivono meno di due milioni di persone.

Non andate in Lettonia per cercare la ricchezza, come s’intende in America e nell’Europa dell’ovest. Non la troverete.

Le agenzie turistiche organizzano brevissimi tour della zona, in cui sostanzialmente si visitano le tre capitali baltiche e ci si ferma in altre località più piccole per poche ore.

Meno di una settimana è sufficiente.

Nessuna grande attrazione, nessun museo d’imperdibile valore, nessun’architettura che possa veramente competere con i capolavori italiani o con l’oro dei russi, per esempio.

Specialmente, vi dico, in Lettonia. In Lettonia sono stata ovunque.

Avevo una mappa, appiccicata alla porta, con i luoghi tutti cerchiati.

Una volta sono finita nella stanza di una ragazza incredibile e le ho copiato l’idea.

Dovete scegliere di andare in Lettonia per trovare un’altra ricchezza.

In verità, io non lo sapevo prima, perché non ho scelto di andare in Lettonia.

Io ho scelto il progetto culturale nella scuola Lielupe dove ho insegnato, ballato, mangiato, suonato, cucinato, litigato, partorito idee ed organizzato eventi.

È chiaro che non avevo la benché minima cognizione di cosa avrei potuto trovare e di come mi sarei trovata, in Lettonia.

Se devo essere sincera, ho esitato prima di prendere la decisione e accettare il progetto.

Sono anche sicura che se mi avessero chiamata da un posto diverso, dove avevo presentato domanda, avrei optato per l’alternativa.

Invece esiste un disegno speciale per ognuno di noi, ci ho sempre creduto.

Ora che sono ritornata in Italia ci credo con più convinzione.

La Lettonia non è Riga, sebbene tutti finiscano lì, sebbene tutto parta da lì.

La Lettonia è una terra di alberi.

Alti alberi intorno ai laghi, ai fiumi, alle ampie spiagge.

Enormi alberi in mezzo alle case, ai negozi, lungo tutte le vie.

La Lettonia è silenzio.

Un silenzio meraviglioso che stavo cercando, che mi ha fatto vedere colori infiniti, cambiamenti quotidiani.

Contrariamente a ciò che viene lecito pensare, in Lettonia c’è molta luce.

È solo che la luce cambia.

Il tempo cambia, è imprevedibile in tutte le stagioni.

Ad aprile 2019 ci sono state giornate calde, quasi estive. Poi, per qualche giorno, di nuovo, la neve.

Alla neve voglio dedicare un capitolo a parte, che, che anche se toppo, sarà per sempre il mio preferito.

Nella scuola Lielupe si trovano bambini e ragazzi dai 3 ai 16-17 anni e, in modi differenti, mi è capitato di lavorare con ognuno di loro.

Praticamente si frequenta il kindergarten, la scuola primaria e il liceo nello stesso edificio.

Non sono gli studenti a cambiare, ma i professori e gli insegnanti. Un sistema, a tratti, pazzesco.

Quando a diciassette anni i ragazzi prendono il diploma di maturità, scelgono se continuare gli studi universitari (in molti stati esteri l’università comincia a 17 anni!) oppure cercare lavoro.

Spesso a soli 23 anni i lettoni hanno già cambiato tre lavori e vissuto in almeno due posti diversi. Crescono proprio in fretta, anche fisicamente. Sono alti, sembrano tutti maturi.

Poi scopri che sono appena usciti dal liceo o che a 28 anni hanno già una figlia e un divorzio alle spalle.

Comunque, la classe che più di tutte mi porto dentro è il quarto grado, perché lì non si parla di seconda, terza o quarta elementare, ma di gradi.

Il quarto grado c’era sempre tutti i martedì, ma spesso anche i giovedì e i venerdì dei concerti.

Era un gruppo di undicenni e poco meno sempre attivo, sempre entusiasta.

Le ragazze facevano un sacco di domande e volevano sapere le cose nel dettaglio.

Quando dicevo di avere il quarto grado, intendevo anche nel nostro senso.

Le gemelle Andrejeva, poi, erano una versione di me doppia, più piccola e bionda. Ci siamo capite e volute un gran bene. Onestamente, mi mancano.

Io ho insegnato qualcosa senza esserne esattamente consapevole. Voglio dire che non ci si sente delle guide solo perché qualcuno vi chiama così, vi affida una cattedra e vi ci mette. Io so di avere insegnato qualcosa perché ora che non insegno più lì, certi alunni ancora mi scrivono, continuano a voler imparare l’italiano e la musica. Sono pochi, non fa niente. Io ho insegnato qualcosa a qualcuno. Nessuno, secondo me, insegna a tutti.

Se lo fa, lo impone e io non voglio imporre nulla. Quando la gente si è imposta con me, non ha ottenuto nulla.

Ma restare dietro è un’altra storia.

C’era, per esempio, un teppistello che non aveva voglia di impegnarsi in nessuna materia. Peró era intelligente e aveva bisogno di alcune parole.

Così io gli stavo dietro, gli dicevo che lo aspettavo sempre a lezione, che doveva venire a trovare i suoi compagni, anche per poco, che in ogni caso era in gamba. Lui non ha più frequentato il corso d’italiano, ma è venuto a salutarmi e alla mia festa di compleanno.

E c’era un altro teppistello, che interrompeva gli esercizi, distraeva gli altri.

Un giorno ha disegnato un cuore alla lavagna e ci ha scritto dentro il suo nome e dopo il mio.

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