Nell’immaginario comune, l’idea e la rappresentazione del dolore è generalmente associata al dolore acuto.
La percezione della sofferenza altrui è spesso e volentieri impregnata di questa immagine tipizzata del dolore che prevede un certo periodo di prostrazione, una terapia rivolta alla guarigione e la risoluzione più o meno definitiva del problema.
In altre parole, quando immaginiamo il dolore, facciamo riferimento a sintomatologie definibili, a qualcosa che ha una precisa durata nel tempo e per cui è possibile prevedere una guarigione. In definitiva: una prospettiva. E in quest’immagine tipizzata del dolore, i consigli e le soluzioni dati a chi soffre sono ego-centrati e si ha la percezione che la sofferenza persistente di chi si ha di fronte sia più una questione di volontà che esperienza continuata nel tempo di dolore fisico che non abbandona mai.
Se vogliamo essere di aiuto a chi soffre di dolore cronico dobbiamo uscire dagli stereotipi intorno alla concezione del dolore e della risposta a esso.
Iniziamo con alcune premesse:
• Una malattia si definisce cronica se i sintomi proseguono per un periodo di tempo superiore ai sei mesi senza che alcuna cura (farmacologica, conservativa — ad esempio la fisioterapia — o chirurgica) sia riuscita a risolvere il problema o perlomeno a ridurre il dolore al punto da non rappresentare un elemento invasivo nella vita delle persone che ne soffrono, che a quel punto diventano a tutti gli effetti disabili.
• Il dolore cronico smette col tempo di essere collegato a una specifica causa medica — il dolore, di regola, è l’indicazione che il corpo dà, attraverso le terminazioni nervose presenti in tutto il corpo, che c’è qualcosa che non funziona — e dunque non ricopre più il ruolo di sintomo, diventando così una malattia a sé stante: la prolungata esposizione del sistema nervoso centrale e periferico a un segnale di allarme modifica i circuiti neurali, che a quel punto non sono più in grado di tornare pienamente al sistema precedente all’insorgenza del dolore, continuando così a produrre segnali dolorosi anche in assenza della ragione primigenia che lo ha generato.
• Le persone con patologie croniche sono tecnicamente ‘non guaribili ma curabili’. L’obiettivo della medicina diventa a quel punto consentire a chi è malato di completare il percorso di coping della situazione, che, in modo del tutto paragonabile all’elaborazione di un lutto, passa per cinque fasi: negazione, collera, patteggiamento, sconforto e accettazione. In sintesi, la terapia del dolore e le cure palliative — perché di questo si parla — hanno l’obiettivo di far arrivare il prima possibile allo stadio di accettazione e di convivenza più o meno serena con il dolore.
• Purtroppo non esiste un unico modo per contrastare il dolore cronico. Ogni persona afflitta da questo genere di problemi risponde in modo unico alle terapie, che di solito sono basate su un mix di farmaci (antidolorifici e/o antidepressivi, in estrema sintesi), adattamento del proprio stile di vita (attività fisica, alimentazione, evitamento dello stress, in estrema sintesi) e assistenza psicoterapeutica, con elementi specifici che possono riguardare le singole malattie. In ogni caso ciò che può funzionare per me potrebbe non funzionare per un’altra persona a cui è stata diagnosticata la mia stessa malattia, per intenderci.
Detto ciò, condivido i miei personalissimi consigli:
1 • Provare a non dimenticarsi mai che la persona con cui state parlando sta affrontando ogni giorno, quasi a ogni ora e senza che possa averne il pieno controllo (inclusa l’assunzione di farmaci), una sensazione di dolore. A differenza del dolore acuto, per cui è possibile immaginare un certo periodo di prostrazione, una terapia rivolta alla guarigione e la risoluzione più o meno definitiva del problema, il dolore cronico non abbandona mai la vita di chi ne è affettə. Le cose che possono essere ‘normali’ per una persona non malata (fare tardi la sera, programmare una vacanza, fare attività sportiva che non abbia scopi riabilitativi — giocare a calcetto, per citare un riferimento a me caro, incazzarsi) sono o inaccessibili o costano una fatica esponenzialmente superiore alla media.
2 • Di conseguenza, occorre una certa accortezza nel condividere i propri problemi con le persone affette da patologie croniche. Fermo restando che non esiste una scala di ‘dignità’ dei problemi, e che l’unico reale indicatore è la percezione personale (che in quanto tale, è un riferimento totalmente soggettivo) di quanto quel tipo di problemi siano impattanti sulla propria vita, e che dunque nemmeno una persona con patologie croniche si può davvero permettere di sminuire i problemi altrui, bisogna allo stesso tempo ricordarsi che chi ha una patologia cronica vorrebbe in qualsiasi momento poter barattare la sua situazione con quella di una persona senza problemi di salute irrisolvibili. I problemi delle ‘persone normali’ sono ciò che chiunque abbia dolore cronico vorrebbe poter vivere, da un lato: dall’altro esistono problemi che, soprattutto se associati a un eccesso di reazione da parte dei ‘sani’, sono considerati di valore molto minore, se non proprio irrilevanti, da parte di chi soffre di una patologia cronica.
3 • Se davanti a una proposta di qualsiasi natura, rivolta a una persona con patologie croniche, ci si dovesse imbattere in un rifiuto, è consigliabile evitare categorie semantiche come “non ti va”, “non ne hai voglia”, “non ne hai bisogno” e ancor di più è consigliabile non prenderla sul personale. Semplicemente, in determinati momenti (purtroppo non prevedibili a priori, anche se la richiesta riguarda un impegno molto prossimo nel tempo) non è possibile soddisfare le aspettative di chi è dall’altra parte, per quanto lo vorremmo con tutte le nostre forze.
4 • A proposito di ciò: la cosa (per me) più importante è l’abbandono totale e senza condizioni del cosiddetto ‘pensiero magico’ quando si tratta di provare a supportare una persona affetta da una patologia cronica. “Ce la farai”, “tanto sei forte”, “alla fine andrà tutto bene”, “sei una roccia”, “sono fiduciosə”, “vedrai che alla fine troverai una soluzione”, sono frasi frequentissime in circostanze del genere ma non hanno nessun appiglio né razionale né scientifico. Non è né una questione di volontà (chi vorrebbe essere malatə per sempre potendo disporre di un’alternativa? Quante persone malate di cancro non hanno lottato con tutte le proprie forze pur di evitare la morte? Una quota infinitesimale della popolazione) né di scarsa propensione a valutare qualsiasi opzione medica possibile: è che proprio non c’è una soluzione. Ci si può approssimare a una qualità di vita decente, ma non sarà mai più la vita precedente alla malattia.
5 • Correlato al punto precedente: l’approccio ‘hai mai provato con [ipotesi di soluzione]?’ può risultare tremendamente frustrante per tre ragioni: a. spesso si è già provato qualcosa di assai più invasivo e scientificamente riconosciuto, senza trovare una soluzione; b. introdurre nuove variabili nel percorso
di cura espone la persona affetta da patologie croniche sia a una valutazione personale sulla presunta efficacia di quella soluzione, sia (ed è assai più faticoso) a dover condividere quella ipotesi con i medici che in quel momento ti stanno assistendo. Dato che, come detto, non esiste un’unica soluzione e una risposta alle cure che valga allo stesso modo per tuttə, si finisce in un limbo in cui la frustrazione legata all’assenza di un punto di arrivo si mescola al fatto che ogni terapeuta ha un parere diverso su quello specifico tipo di cura, aumentando il senso di smarrimento invece che ridurlo c. questo genere di percorso è caratterizzato da tempi estremamente dilatati.
6 • L’argomento “devi essere ottimista, stai meglio di un anno fa” è un argomento che funziona per una persona che a un certo punto guarisce, ma non nel caso di chi è inguaribile: quella persona sa che non potrà più tornare ‘come prima’ e troverà una consolazione molto relativa nei suoi progressi, dato che davanti a una frase del genere la mente lo ricondurrà in modo pressoché inevitabile al pre-malattia.
7 • Un regalo sincero che potete fare a una persona con una patologia cronica è regalarle una prospettiva: qualche impegno gratificante, qualche punto di arrivo di un percorso (non potendo disporre di un punto di arrivo nella propria lotta contro il dolore cronico, bisogna cercarne altri). La prospettiva dev’essere rassicurante, non troppo gravosa né fisicamente né psicologicamente, dev’essere stabile (meglio non fare proposte piuttosto che fare promesse che non si possono mantenere) e chiaramente dev’essere reversibile, nel senso che chi ha malattie croniche può doversi fermare in qualsiasi momento a causa della propria condizione. In ogni caso, questo genere di attenzione vale mille volte più di una frase che attinge dal vocabolario del pensiero magico.
8 • Le persone con patologie croniche possono non essere più, del tutto o in parte, autosufficienti e possono vivere questa condizione con un profondo senso di colpa nei confronti degli altri. Ci si può spesso sentire come un fardello nei confronti di chiunque, inclusa la propria famiglia. Stare vicino a chi vive una situazione del genere non può essere per nessuna ragione un dovere morale, ma deve rappresentare una sincera volontà di farsi carico di una situazione che potrebbe condizionare anche la vita di chi si prende cura di una persona con malattie croniche, oltre che di chi è malato. Per questo sarebbe preferibile garantire un’assistenza incondizionata e continuativa piuttosto che temporanea e soggetta a variabili di qualsiasi natura (ciò non toglie che se una persona con una malattia cronica è indisponente, irriconoscente o matura aspettative incoerenti con la propria situazione, merita di essere mandata a fare in culo esattamente come chiunque altrə) e — potrà sembrare un paradosso ma non lo è affatto – dichiarare dal principio che non si hanno gli strumenti per garantire quel tipo di assistenza così impegnativo è meglio che farlo in modo intermittente o promettere qualcosa che non si può mantenere.
9 • Il concetto di ‘riposo’ per una persona con patologie croniche è profondamente diverso rispetto a chi non ha invece questo tipo di situazione. Nel nostro caso il riposo coincide con la distrazione, anche solo provvisoria, dal dolore e dai pensieri negativi associati a esso.
10 • Se concetti come ‘felicità’, ‘serenità’, ‘riposo’, ‘relax’ non ci appartengono più, per favore, perdonateci.
di Dino Amenduni*
* Ringraziamo Dino Amenduni per aver rivisitato per noi l’articolo “10 suggerimenti su come avere a che fare con una persona con una malattia cronica” tratto dal suo blog personale.
Dino Amenduni è socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma.