Il violino è stato in Lettonia con me, tutto il tempo.
Il mio violino ha fatto molti lunghi viaggi insieme a me, da quando ero piccola.
Nella scuola Lielupe, ho suonato in diversi momenti: durante le presentazioni sul nostro Paese, perché all’estero, specialmente in area russa, la musica italiana è amata e conosciuta e perché, forse lo dimentichiamo, il violino, nella forma in cui oggi si vede e suona, è un’invenzione italiana del Cinquecento.
Sulla base di questo, ho costruito un’altra storia teatrale che prevedeva l’utilizzo del violino in scena e aveva l’obiettivo di guardare l’Italia non soltanto come un posto dove mangiare bene, quale indiscutibilmente è.
L’Italia è un luogo di arte ed invenzioni eccezionali, spesso riconosciute dagli stranieri, sottostimate o ignorate dagli italiani.
E italiana risulta la leggenda secondo cui il violino è lo strumento del diavolo, anche questo spiegavo con la mia storia.
A Balvi, un giorno, ho visitato il museo regionale lettone e nella stanza degli strumenti musicali era appeso al soffitto, Dio solo sa come, in un punto strategico, il violino con l’archetto.
In quel punto, in un gioco di luce ed ombra, sembrava proprio come in quella famosa immagine di Paganini al concerto, quando uno spettatore giurò di aver visto il diavolo dietro di lui.
Sembrava tutto oscuro, come i capelli ricci.
Ai lettoni i miei capelli ricci piacevano un sacco.
I bambini in Bielorussia dicevano che ero brava perché avevo i capelli ricci, mi ringraziavano.
Guardando i ritratti, violinisti come Tartini, Paganini, il diavolo, avevano i capelli ricci.
Io non sono mica come loro, ma suono il violino e alla fine i capelli ricci, pieni di nodi e in passato unicamente odiati, non ho più voluto tagliarli.
Sono cresciuti in Lettonia come non gliel’ho mai permesso.
Sono diventati, per la prima volta, un prerequisito indispensabile per distinguersi.
Per la scuola Lielupe, ho suonato durante i numerosi eventi dedicati all’Indipendenza (il 18 novembre 2018 la Lettonia ha festeggiato ufficialmente cento anni d’Indipendenza), ai concerti di Natale e altre festività, per cerimonie specifiche tra cui il Diploma dei ragazzi più grandi.
La prima canzone lettone che ho imparato è stata “Nekur nav tik labi kā mājās” di Raimonds Pauls, un politico, delicato compositore, famosissimo in Russia e nei paesi post-sovietici.
L’ho suonata in versioni differenti.
Vuole dire che nessun posto è bello come la propria casa, terra natia e che si conosce.
La maggior parte dei lettoni ama la propria terra più di quanto possa amare una persona. Questo li tiene uniti.
Ho visto delle donne piangere mentre si cantava l’inno nazionale.
Ma la mia canzone lettone preferita, e ce ne sono davvero tante di bellissime, è “Mana dziesma”, cantata da un ragazzo con gli occhi celeste chiaro.
Significa, appunto, “la mia canzone” ed è dedicata alla gente a cui nessuno dedicherebbe mai un canto, se, appunto, il ragazzo con gli occhi celeste chiaro non lo facesse per loro.
Tutte le volte che l’ascolto mi commuovo.
A Riga, quella notte, c’era un vento gelido lungo il fiume, ma mi coinvolsero in un cerchio di abbracci, mentre andava, fra le luci, “Mana dziesma”.
Non sentivo il freddo.
Comunque, ciò che è cambiato veramente in Lettonia per me e il mio violino è legato alla strada e a tutte le volte che ho avuto tempo di lasciarmi andare, di aspettare, stare a vedere quello che succede, fermarmi.
A tutti i musicisti del mondo auguro ad un certo punto di fare esperienza della strada da qualche parte.
Le cose che si ricevono, in termini di complimenti, attenzione, soldi, fiori, cioccolata calda, abbracci, parole, regali, superano tutte le storie che potremmo soltanto immaginare.
Io tornavo a casa, dopo aver suonato in strada, con il cuore pieno di sorprese.
Avevo sempre nuovi amici e qualcosa di straordinario da ricordare.
Avevo meno paura e un po’ più di fiducia.
Ecco, la Lettonia è stata anche per me un percorso sulla fiducia.
Questo ve lo racconto, in modo speciale, nel prossimo capitolo…